giovedì 18 dicembre 2008

Alcune Analogie...

Nel discorso con il quale, il due ottobre scorso, ha caldeggiato l’approvazione del piano Paulson da parte della Camera dei Rappresentanti (850 miliardi di dollari dei contribuenti americani usati per acquistare titoli impossibili da valutare) il presidente George W. Bush ha evocato lo scenario di una “lunga e dolorosa recessione” quale immediata conseguenza dell’inazione. Pur non avendo chiamato direttamente in causa la Grande Crisi americana iniziata con il crollo della Borsa del 1929, il riferimento a quegli anni drammatici è implicito per ogni americano. Vale la pena allora analizzare le due situazioni, mettendo in luce alcune analogie. Innanzitutto tra gli elementi assonanti va registrato il fatto che entrambe le crisi esplodono dopo un lungo periodo di dominio repubblicano. Negli anni che precedettero la Grande Crisi, infatti, si erano succeduti tre presidenti “rossi”, che condividevano una politica improntata al laissez-faire in campo economico e ai tagli fiscali. Negli ultimi trent’anni di governo americano la politica è stata simile: dopo i mandati Ronald Reagan e Bush Sr., lo scettro del potere è stato per due volte nelle mani di Bill Clinton, un democratico che sembrava aver smarrito il lascito delle idee progressiste di un Roosevelt e di un Lyndon Johnson, risultando inoltre neutrale, se non accomodante, rispetto agli eccessi della speculazione finanziaria; a Clinton, come noto, seguono i due mandati di George W. Bush, sul cui totale asservimento ai diktat del potere economico si è detto e scritto talmente tanto che non vale la pena qui aggiungere altro. Altro elemento che accomuna la crisi degli anni Trenta e quella attuale, è che in entrambi i casi sono le fasce più deboli della popolazione, in particolare le minoranze, a soffrirne gli effetti in modo più drastico. Alla fine degli anni 20, il crollo del mercato del cotone sfasciò il diffuso sistema della mezzadria e milioni di afro-americani dovettero emigrare verso i centri urbani del Sud degli Stati Uniti, dove la discriminazione razziale rendeva quasi impossibile l’accesso a nuove opportunità di lavoro e perfino ai programmi di supporto promossi dal governo. Un dato su tutti: circa la metà degli afro-americani e dei latini che hanno acquistato un immobile nel 2005 lo ha fatto attraverso mutui sub-prime (lo stesso indicatore, applicato al sottoinsieme delle persone di razza bianca, non arriva al 20%).Considerazioni politiche ed etiche a parte, allora come oggi la grande sperequazione economica del Paese rappresenta un importante elemento di vulnerabilità del sistema: negli anni 20, nonostante la crescita dei salari, i veri beneficati del governo furono i ricchi, cui vennero concessi importanti sgravi fiscali. Ottanta anni dopo, a pagare il conto è sempre il “Forgotten Man” di cui parlò Roosevelt in un celebre comizio del 1932: l’uomo della strada, che perde il lavoro, la casa, il credito. Il crollo del mercato immobiliare rende illiquide le attività delle banche che alla fine collassano, mentre il paese si avvita in una recessione sempre più drammatica. Così il Forgotten Man, oltre che dimenticato, è pure rovinato e assiste impotente allo spettacolo increscioso di un sistema che usa le sue tasse per salvare le banche, causa principale della sua rovina.

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